INTRODUZIONE ALLA GEOMORFOLOGIA

Liberamente tradotto da Earth Changing Surfaces, an introduction to Geomorphology di M. J. Selby Claredon Press Oxford (1985)

INTRODUZIONE

Le nozioni sulla superficie della terra si ottengono da molte discipline: geofisica, geochimica geologia, climatologia, e molte altre. Nessuna di queste discipline scientifiche esiste indipendentemente dalle altre, inoltre tutti gli studiosi di scienze della terra devono possedere un’ampia conoscenza della struttura, dei materiali, dei processi e delle forme che compongono la superficie della terra . Le onde che agiscono su di una spiaggia, il trasporto di sedimento da parte di un fiume sono testimonianze del continuo mutamento della superficie terrestre, il cui ritmo varia sia nello spazio che nel tempo. Esiste dunque un aspetto cronologico legato allo studio della superficie, come elemento dinamico connesso alla comprensione dell’azione dei processi responsabili della modellazione di rocce, suoli e strutture geologiche. Strutture, materiali, processi ed aspetti cronologici dei mutamenti delle forme sono le quattro componenti essenziali nello studio della natura ed origine della superficie attuale e formano i paragrafi dello studio che affronteremo.
L’esistenza della vita sulla terra e i mutamenti sulla sua superficie sono determinati dalle dimensioni del pianeta e dalla sua posizione nel sistema solare.
Se la terra avesse avuto dimensioni inferiori, la minor forza di gravità non sarebbe stata sufficiente a trattenere i gas che ne compongono l’atmosfera dal fuggire nello spazio; se invece le dimensioni fossero state molto più grandi, la forza di gravità avrebbe trattenuto i gas entro le rocce, impedendo la formazione dell’atmosfera, dell’idrosfera, dei suoli e quindi della vita.
La ristretta gamma di temperature che si riscontrano sulla superficie - da circa -80° C a + 100° C - costituisce soltanto circa il 2% dell’intervallo tra lo zero assoluto e la temperatura della superficie del sole. E’in questo ristretto intervallo che si realizza tutta la vita e tutti i processi sulla superficie.

L’ENERGIA PER I MUTAMENTI DELLE FORME

L’intorno della terra é una sorgente di calore di origine radioattiva che funziona ad un ritmo definito critico. Se avesse funzionato più lentamente, tutte le attività geologiche si sarebbero svolte ad un ritmo più lento: i vulcani non avrebbero emesso il vapore e gli altri gas che hanno formato l’atmosfera e l’idrosfera; gli elementi pesanti quali ferro e nichel non avrebbero potuto separarsi per formare un nucleo liquido, e quindi non si sarebbe formato il campo magnetico; la terra quindi avrebbe avuto una superficie piena di crateri e priva di vita come quella della luna. Una terra con una sorgente di calore più rapida sarebbe stata ugualmente inabitabile a causa delle continue e diffuse eruzioni vulcaniche e terremoti, e di una densa atmosfera satura di polveri e di violente scariche elettriche. Forse in origine la terra aveva una superficie di questo tipo, ma sono l’attuale moderata velocità di generazione del calore, le moderate escursioni termiche, l’attuale dimensione e posizione del pianeta nel sistema solare a rendere possibili i processi geologici, atmosferici e la vita che compongono il nostro ambiente in continua trasformazione.
Il calore interno genera correnti convettive nel mantello di roccia allo stato plastico che si trova sotto la rigida superficie della terra. Si ritiene che le correnti convettive siano il meccanismo con il quale le rigide placche che costituiscono la crosta vengono separate, spinte l’una contro l’altra e ruotate, generando i grandi rift di lacerazione delle placche, quali la linea del Mar Rosso e le Rift-Valleys africane o alte catene montuose dove le placche collidono, come nell’Himalaya. Inoltre il moto delle placche origina i terremoti e l’alto flusso di calore verso la superficie lungo i margini delle placche, causando la formazione dei vulcani.
Questi processi geotermali interni sono detti “endogeni” mentre la le forze esterne che agiscono alla superficie e la cui energia deriva dalla radiazione solare, si chiamano “esogeni” fig. 1.1.

Foto 7.1 Esempio di disgregazione per fogliettamento, prodotta per termoclastismo; Ande argentine.
(Foto G. Paliaga)

Fig. 1.1 Schema semplificato delle sorgenti di energia per i processi geomorfologici.  

La radiazione solare assorbita dalla terra genera i moti convettivi atmosferici (la circolazione dei venti), l’evaporazione dell’acqua di mare, fiumi e laghi, attivando così quell’interscambio di acqua tra superficie terrestre ed atmosfera noto come “ciclo idrologico”; fornisce inoltre l’energia per i processi biologici. La rotazione dei pianeti e le loro posizioni reciproche, in particolare quelle di sole, luna e terra, generano le maree sia marine, con effetti evidenti lungo le coste, che terrestri sulle rocce della crosta. La forza gravitazionale genera energia in maniera meno evidente ma, attraendo ogni corpo verso il centro della terra, fornisce l’energia potenziale alle rocce ed ai suoli che si trovano in posizione elevata.

LE EREDITA’ DEL PASSATO.

Le forme visibili sulla superficie terrestre non si sono formate istantaneamente. Le più piccole, come le ondulazioni nelle dune di sabbia, possono svilupparsi in pochi minuti, ma le grandi strutture di dimensioni continentali, o le unità continentali come le catene montuose o estese pianure, hanno avuto una evoluzione di decine o centinaia di milioni di anni. In generale si può affermare che più estese sono le forme e più lunga e complessa è stata la loro evoluzione; di conseguenza le metodologie usate per il loro studio devono essere adeguate alle dimensioni (tab. 1.1).
Le condizioni ambientali sulla superficie terrestre non sono costanti: il clima cambia in parte perchè la quantità di radiazione solare trattenuta nell’atmosfera terrestre non é costante, ed in parte perché variano sia la composizione dell’atmosfera che le superfici di continenti ed oceani. Inoltre il flusso di calore geotermico non é costante in tempi geologici e varia da una zona all’altra della crosta. Questi cambiamenti, insieme con la lenta e graduale evoluzione della vita, e quindi il variare dei processi biologici, comportano che il disfacimento delle rocce, ed il loro trasporto, siano stati diversi nelle ere passate rispetto ad oggi. Molti processi che modellano le forme sono controllati o fortemente influenzati dagli organismi. Un esempio evidente è fornito dall’azione protettiva esercitata dalla vegetazione sul suolo. Settanta milioni di anni fa, sebbene piante ed arbusti coprissero molti rilievi, la copertura erbosa non era ancora sviluppata ed é probabile quindi che i processi di erosione procedessero in maniera molto più intensa. Gli animali inoltre, in particolare l’Homo sapiens, hanno contribuito al rimodellamento della superficie terrestre, specialmente negli ultimi mille anni. La condizione ritenuta “normale” della superficie terrestre non prevede né la presenza di coperture permanenti di ghiaccio, né di vaste calotte glaciali. Negli ultimi venti milioni di anni (20My) ed oltre, grandi volumi di ghiaccio hanno ricoperto l’Antartide e, negli ultimi quattro milioni di anni, anche la Groenlandia. Sui continenti dell’emisfero Nord, negli ultimi due milioni di anni, il ghiaccio é avanzato ed arretrato periodicamente. Inoltre, nell’ultimo milione di anni, l’estensione dei ghiacci nella parte settentrionale dell’America del Nord e dell’Europa si è ripetuta secondo cicli piuttosto regolari, con periodi freddi, caratterizzati da importanti accumuli di ghiaccio e durati tra 70 e 100 Ky e periodi intermedi con clima simile a quello attuale, durati 10-30 Ky. Contemporaneamente all’accumulo ed allo scioglimento dei ghiacci, in altre zone del globo si sono verificate oscillazioni climatiche, con variazioni di temperatura, precipitazioni.

Gli intensi cambiamenti climatici che hanno caratterizzato gli ultimi 20 Ky sono stati accompagnati dai maggiori movimenti della crosta terrestre. Le grandi placche, che formano la superficie rigida della terra, si sono mosse l’una rispetto all’altra ad ritmo dell’ordine di 10 cm/anno, mentre il sollevamento delle catene montuose è avvenuto ad un ritmo di 1cm/anno. Terremoti, eruzioni vulcaniche e abbassamenti crostali hanno contribuito inoltre a modificare la superficie. Naturalmente i processi esogeni ed endogeni del passati, non si sono verificati con le stessa intensità e distribuzione attuali: anche i processi dominanti in una determinata zona non sono costanti. Ciò che non é cambiato sono le leggi fisiche e chimiche fondamentali che governano lo sviluppo e le modifica del substrato roccioso. La comunità scientifica considera queste “leggi naturali” come immutabili, secondo quello che viene definto principio dell’attualismo.

Variazioni in intensità, natura e distribuzione dei processi hanno talvolta lasciato la loro impronta sulla superficie terrestre. Ad esempio antichi suoli possono essere rimasti sepolti da depositi più recenti alla base di una collina, così come depositi di frammenti di roccia da un ghiacciaio ormai arretrato. Questi depositi testimoniano i processi che nel passato hanno agito sul paesaggio, dimostrando come l’attuale superficie del suolo sia determinata dall’evoluzione temporale e sovrapposizione di tali processi.

LE SCALA DI TEMPO

Si ritiene che l’età della terra sia di circa 4600 miliardi di anni (4,6 Gy); la roccia più antica conosciuta ha un’età datata in circa 3,8 Gy. I geologi, usando le testimonianze lasciate dall’evoluzione della vita sulla terra, hanno costruito una scala cronologica di tipo relativo fig 1.2. Le più lunghe unità di tempo sono le ere, suddivise in periodi, che a loro volta sono divise in epoche. I periodi vengono denominati in base alla località geografica in cui si trovano le formazioni, ossia vasti affioramenti rocciosi geneticamente riferibili a quel determinato intervallo temporale; l’individuazione delle formazioni viene fatta nelle località in cui sono più evidenti oppure dove sono state studiate per la prima volta. Il periodo Giurassico, ad esempio, ha preso il nome dai monti Giura della frontiera Franco-Svizzera. La correlazione tra gruppi di rocce della stessa età, e la suddivisione del tempo geologico, dal primissimo Paleozoico all’attuale, si basa sull’associazione degli organismi fossili che vengono ritrovati nelle rocce stesse.

Ai fini geologici la scala di tempo deve necessariamente coprire tutto il periodo di formazione delle rocce, mentre il paesaggio attuale si è sviluppato durante un piccolo intervallo di tempo. I bacini oceanici non sono più antiche di 200 My, così come le più antiche pianure della terra si sono sviluppate nello stesso intervallo temporale.

La maggior parte dei paesaggi hanno origini molto più recenti, risalendo a prima dell’inizio dell’era Cenozoica e si sono formati, più frequentemente, negli ultimi 20-30 My.

I terrazzi fluviali possono essere datati a meno di 20 Ky, mentre molte frane o gole soltanto pochi giorni o anni. Quindi l’intervallo di tempo al quale é interessato il geomorfologo parte dal medio-tardo Cenozoico ad oggi, con particolare rilievo al Quaternario. L’istante del passaggio al Quaternario non trova d’accordo tutti gli studiosi, ma viene generalmente posta tra gli 1,8 ed i 1,6 My.

Il metodo di datazione geologica tradizionale, utilizzando l’evoluzione di specie fossili, é un metodo di tipo relativo, ossia in cui l’età di un fossile o di un’unità rocciosa viene stabilita relativamente a fossili ed unità più recenti. Di conseguenza la datazione relativa si basa sull’interpretazione di sequenze di eventi e su sequenze stratigrafiche, mentre i metodi di datazione assoluta forniscono l’età in anni.


Molti metodi di datazione relativa si basano sull’applicazione di uno o più dei tre principi basilari della stratigrafia:
1. Il principio di sovrapposizione, secondo il quale, in una successione non troppo deformata di rocce stratificate (strati), lo strato più vecchio giace alla base, ricoperto via via da quelli più recenti. Questo principio é alla base della cronologia relativa di ogni strato e dei fossili in esso presenti.
2. Il principio dell’originaria orizzontalità, il quale stabilisce che, poiché le particelle sedimentarie si separano dai fluidi per l’azione della forza di gravità, la stratificazione originaria deve essere; quindi gli strati molto inclinati, hanno subito deformazioni successivi.
3. Il principio dell’originaria continuità laterale, secondo il quale gli strati originari si estendevano in tutte le direzioni fino a ridursi ad uno spessore nullo, o a terminare contro i bordi dell’originario bacino di deposizione.

Fig. 1.2 Scala geocronologica per il Fanerozoico. La scala è in continua revisione

 
DATAZIONE ISOTOPICA

L’età assoluta delle rocce, e quindi delle divisioni della scala del tempo geologico, viene ottenuta attraverso misure di isotopi radioattivi. Per determinare l’età di una roccia occorre che in essa sia presente un minerale che, nell’istante di originaria cristallizzazione, contenesse atomi di un isotopo di radioattivo. Ciascun isotopo originario, detto isotopo padre, decade in isotopo figlio, il quale rimane nello stesso cristallo. La velocità di decadimento é generalmente espressa in termini di “periodo di semitrasformazione” che é il tempo necessario affinché decada la metà del numero originario di atomi radioattivi. Quando un elemento radioattivo viene ad essere incluso in un minerale, alla fine del primo periodo di semitrasformazione ne rimane la metà; alla fine del secondo periodo di semitrasformazione, ne rimane un quarto; alla fine del terzo, ne rimane un ottavo, e così via. Se si riportano i dati in un grafico si può vedere che la velocità di decadimento é una funzione di tipo esponenziale (fig. 1.3).
Al fine di datare una roccia ignea, da un campione si estraggono cristalli di zircone, muscovite o biotite. Tali minerali contengono gli isotopi radioattivi 235U e 238U che si trasformano gradualmente in 207Pb e 206Pb rispettivamente. I cristalli si possono disciogliere fino a portare in soluzione l’Uranio e il Piombo; i rapporti 235U:207Pb e 238U:206Pb possono essere misurati con uno spettrometro di massa. Supponendo che tutti gli isotopi di Uranio e Piombo fossero presenti nel cristallo dall’istante di formazione, e che nessun isotopo figlio fosse originariamente presente, si può calcolare l’istante di cristallizzazione, essendo costanti e note da accurate misure di laboratorio le velocità di decadimento di tutti i comuni isotopi radioattivi.

Fig. 1.3 Decremento del numero di atomi radioattivi in funzione del tempo. Se N0 indica il numero iniziale di atomi padre ed N il numero dei rimanenti all’istante t, il processo di decadimento può essere

espresso secondo l’equazione: dove n indica il periodo di semitrasformzione del sistema considerato.

Le serie di decadimento degli isotopi di Uranio e Piombo, e di Rubidio e Stronzio sono utili per datazione di minerali più vecchi di 10 My e pertanto vengono utilizzati raramente dai geomorfologi; il decadimento del Potassio-40 in Argo-40 (40K:40Ar) può essere invece usato per datare minerali di quasi tutte le rocce ignee e metamorfiche entro i 100 Ky di età, ed é quindi di grande importanza per datare sia rocce che ceneri vulcaniche.
L’acqua di mare contiene in soluzione un’apprezzabile quantità di Uranio, ma praticamente nessuno dei suoi isotopi figli. Ciò implica che gli organismi dotati di scheletro carbonatico come il plankton, i coralli, i bivalvi, così come i carbonati non organogeni, abbiano assorbito uranio, ma nessuno degli isotopi figlio. Supponendo che un campione di carbonato sia rimasto un sistema chiuso, senza possibilità di acquisire o perdere isotopi figlio, la quantità di tali isotpi della serie dell’Uranio che in esso si ritrova, fornisce una misura dell’età del campione stesso. Le proporzioni di Torio-230 (230Th) e di Protoattinio-231 (231Pa) presenti, possono essere usate per stabilire età fino a 300 Ky e 150 Ky rispettivamente. Il metodo del 230Th é risultato di fondamentale importanza nella datazione dei coralli, e quindi nella datazione delle variazioni del livello marino.
I materiali organici più età inferiore ai 40 Ky vengono normalmente datati usando il carbonio-14 (14C) in essi contenuto. Durante la crescita, piante ed animali, incorporano nei tessuti una piccola quantità di 14C contenuto, insieme agli altri isotopi del carbonio, nella CO2 atmosferica. Alla morte dell’organismo l’assorbimento cessa e la relativa quantità di C nei tessuti risulta nello stesso rapporto presente nell’atmosfera (si ritiene che tale rapporto sia rimasto praticamente costante durante gli ultimi 100 Ky); tale rapporto decresce dopo la morte a causa del decadimento radioattivo del 14C. La quantità di 14C rimasta, viene misurata dal conteggio delle particelle in decadimento nel campione, conteggio che è utilizzato per stabilire l’istante della morte dell’organismo. Il metodo del conteggio delle particelle in decadimento permette di determinare età dell’ordine di 40 Ky B.P. (before present), consentendo svariate applicazioni. A partire dal 1975 sono stati sviluppati nuove metodologie che, mediante l’acceleratore di particelle, permettono di misurare direttamente gli atomi di 14C nel campione, anziché conteggiare le particelle che decadono; con tali tecniche si possono datare materiali fino a 75 Ky di età e, in alcuni casi, fino a 100 Ky. La datazione mediante 14C é di enorme importanza ai fini dello studio dell’evoluzione delle forme ed in archeologia, nell’arco degli ultimi 40 Ky sebbene alcuni dati siano poco attendibili a causa del fatto che i campioni sono stati contaminati da carbonio più vecchio (lignite o carbone), o più recente, trasportato dall’acqua che filtra nel terreno. Per questa ragione i materiali organici presenti nei suoli, i gusci di organismi marini ed i reperti ossei risultano difficoltosi da datare in modo attendibile.

ALTRI METODI DI DATAZIONE

Le tracce di 238U contenute in vetri vulcanici e minerali come apatite, zircone, titanite e mica, permettono il metodo di datazione delle traccia di fissione. L’238U decade spontaneamente per fissione (disintegrazione esplosiva in due frammenti). La velocità di fissione è molto bassa; la fissione spontanea dell’238U ha un periodo di semitrasformazione di circa 8*1015 anni.
La quantità di energia sviluppata in tale processo spontaneo é invece relativamente grande e pari a circa 200 meV; i frammenti risultanti percorrono una traiettoria di circa 10 micrometri (mm) nel materiale circostante prima di essere fermati. La traccia risultante può essere evidenziata irrorando il vetro o il cristallo con acido fluoridrico. Il numero di tracce incise per fissione dipende solo dal tempo e dall’Uranio contenuto dal campione. Se é noto il contenuto di Uranio del campione, si può dedurre l’età mediante le tracce di fissione dal conteggio delle stesse. Questo metodo ha assunto importanza sempre crescente in regioni vulcaniche quali la Nuova Zelanda, il Giappone e parte degli Stati Uniti, dove ha permesso di determinare l’età non soltanto di eventi vulcanici, ma anche di sedimenti, suoli, e di altri depositi contenti ceneri vulcaniche. Il metodo viene usualmente applicato a materiali di età compresa tra 1 Ky e 5 My.

La dendrocronologia, o cronologia degli anelli di accrescimento degli alberi, é una tecnica usata per datare legno “vivente”.
Le cellule del legno che forma gli anelli di crescita annuale degli alberi presentano un ampio lume (spazio tra cellule) se crescono in primavera, che invece risulta più piccolo per quelle che crescono in estate ed in autunno. Il numero degli anelli delle cellule estive o invernali è un indicatore dell’età dell’albero. Tale tecnica é utilmente applicata per datare depositi recenti quali quelli lasciati da ghiacciai e fiumi, in cui quindi può essere semplicemente stimato il periodo di colonizzazione da parte degli alberi.
La maggior parte delle età dendrocronologiche si riferiscono agli ultimi 1-2 ky, ma sono state prodotte anche cronologie fino a 5-7.5 Ky per studi sui climi del passato e reperti archeologici; tali cronologie vengono ricostruite dalla sovrapposizione delle strutture di anelli che mostrano testimonianze riconducibili ad eventi particolari, quali siccità o periodi particolarmente piovosi.

Fig. 1.4 Esempi di come i depositi riscontrabili sul terreno possono essere usati come indicatori cronologici delle forme. Le forme superficiali non possono essere più antiche dei materiali che si ritrovano al di sotto di esse, ma possono essere più recenti del marker più giovane trovato nella regione. La quasi totalità dei paesaggi è composta da forme con un ampio intervallo di età.

inalterato. In depositi di materiali simili, ma esposti per periodi diversi all’azione di fiumi o ghiacciai, é spesso possibile scoprire differenze nella profondità e nel colore dello strato di alterazione. Questa osservazione non fornisce una “età” del tempo trascorso dalla deposizione (età assoluta), ma permette di cartografare ed identificare materiali relativi a differenti fasi di deposizione. Ad esmpio il vetro vulcanico riolitico (ossidiana) subisce un’alterazione progressiva attraverso il lento assorbimento di acqua. Lo spessore dello strato esterno idratato, o il numero degli strati idratati e scheggiati da un ciottolo, sono usati come indicatori dell’età relativa del deposito sul quale il ciottolo si trova. In alcuni siti i dati relativi all’idratazione dell’ossidiana possono essere inseriti in una scala di tempo fornita dalla datazione di una roccia vulcanica mediante il rapporto 40K:40Ar.

Strato di alterazione di una roccia ad opera degli agenti chimici, attorno ad un nucleo
La “lichenometria” é un altro metodo di datazione relativa in cui si assume che il diametro di un lichene sia direttamente proporzionale al tempo di crescita. Il metodo é semplice da applicare poiché richiede solo l’uso di un righello, ed é stato usato per datare svariate morene glaciali formatesi nell’ultimo Ky.

Paleomagnetismo

La datazione paleomagnetica é un metodo di crescente importanza nella correlazione di depositi. Il metodo si basa sulla similitudine tra il campo magnetico terrestre e quello generato da un’ipotetica barra di materiale magnetizzato posta al centro della terra stessa. L’asse del magnete immaginario (asse geomagnetico) emerge dalla superficie della terra ai poli magnetici, che non coincidono con quelli geografici; l’asse magnetico forma attualmente un angolo di circa 20 gradi con quello geografico. Durante le ere geologiche il campo magnetico terrestre ha subito numerose inversioni di polarità (inversione della polarità magnetica) mentre la posizione dell’asse é rimasta sostanzialmente invariata.

L’inversione si manifesta con la diminuzione dell’intensità del campo magnetico fino allo zero, seguita da un aumento in polarità inversa. Gli intervalli di tempo tra le inversioni di polarità appaiono irregolari. La sequenza di tali inversioni è testimoniata nelle rocce vulcaniche a causa della presenza di ossidi di ferro e di titanio; il basso contenuto di tali ossidi nelle lave basaltiche permette la registrazione solo delle variazioni estreme. Ad alta temperature, a causa dell’agitazione termica, i minerali presenti in una lava fusa non sono magnetizzati ma quando la temperatura scende al di sotto di una temperatura critica, caratteristica di ogni elemento magnetico e definita punto di Curie (770°C per il ferro), i magneti elementari che compongono il minerale neoformato assumono un’orientazione parallela alle linee di forza del campo magnetico terrestre. Con l’ulteriore raffreddamento il magnetismo termico residuo rimane definitivamente impresso nella roccia solida e costituisce una testimonianza della direzione del campo magnetico terrestre al momento dell’attraversamento della temperatura di Curie, ossia del paleomagnetismo. L’istante di inversione può essere ottenuto dalla datazione mediante il metodo del rapporto 40K:40Ar nel basalto cristallizzato prima e dopo l’inversione.

Inoltre anche alcuni minerali prodotti per alterazione, come l’ematite (Fe2O3) ed altri minerali magnetici deposti in sedimenti oceanici e lacustri, conservano testimonianze della polarità al tempo della loro deposizione. Questo magnetismo sedimentario permette di correlare i prodotti dell’erosione, i suoli ed i sedimenti con i dati ottenuti dall’analisi dei basalti. La sequenza delle inversioni durante il Cenozoico é conosciuta con un buon grado di accuratezza ed è stata datata (fig. 1.5).
La polarità uguale a quella odierna é riferita ad un’epoca “normale” e la polarità opposta ad un’epoca definita “inversa”. Le epoche geomagnetiche durano per centinaia o migliaia di anni ma possono essere interrotte da eventi di polarità di decine o migliaia di anni. La scala cronologica geomagnetica é comunemente usata per datare e correlare depositi marini e rocce ignee, ma può essere anche usata per correlare e datare alcuni depositi terrestri.

Fig. 1.5 Scala cronologica geomagnetica per il Cenozoico, versione del 1979. Differisce dalle precedenti versioni ed è suscettibile di continue variazioni (Mankinen e Dalrymple, 1979)  
OBIETTIVI E STORIA DELLA GEOMORFOLOGIA

La geomorfologia può essere definita come la scienza che studia la natura, la storia delle forme ed i processi di alterazione, erosione e deposizione che le creano. Pertanto essa si avvale del lavoro di geologi, geografi, pedologi ed idrologi. Principi di geomorfologia si trovano negli scritti dei primi uomini di scienza, quali Aristotele e Leonardo da Vinci, ma la moderna scienza della terra inizia a svilupparsi solo nel secolo XVIII quando alcuni ricercatori riconoscono le testimonianze visibili sul terreno, considerandole prioritarie rispetto alla “verità rivelata” derivata dall’interpretazione letterale della Bibbia.
Tra i primi e più importanti lavori vi é “La teoria della terra, con prove ed illustrazioni.” di James Hutton che fu pubblicata nel 1788 in un volume degli Atti della Royal Society di Edinburgo. In questo scritto Hutton nega la possibilità che la terra sia stata creata durante i sei giorni della Creazione, descritti nel libro della Genesi, e la possibilità che eventi catastrofici - come l’inondazione durante la quale Noè varò la sua arca - abbiano modellato la superficie della terra. Hutton dal suo grande lavoro sul campo, dedusse che il paesaggio viene modellato dalla lenta azione di erosione operata dall’acqua sulla superficie terrestre; inoltre, dai materiali erosi, trasportati dai fiumi e deposti in mare si formano nuove rocce sedimentarie. Hutton postulò il sollevamento di queste rocce per formare nuovi rilievi che verranno nuovamente erosi dall’azione dell’acqua. Nei continui processi di erosione, sedimentazione ed innalzamento Hutton vide ciò che definì “Nessuna traccia dell’inizio nessuna prospettiva della fine” ovvero la base di quello che sarebbe diventato il principio dell’uniformismo.

Il lavoro di Hutton fu assai poco apprezzato durante la sua vita, in parte perché gli atti della Royal Society di Edimburgo avevano scarsa diffusione, in parte perché il suo modo di scrivere era complesso e spesso oscuro. Egli, tuttavia, ebbe maggior fortuna presso il suo amico John Playfair, professore di matematica all’Università di Edimburgo, il quale credeva nella validità del lavoro di Hutton e possedeva uno stile più chiaro. Playfair commentò e riscrisse il lavoro di Hutton e nel 1802 pubblicò il suo libro “Illustration of the Huttonian theory of the Earth.”
Playfair aggiunse molti contributi originali e fornì spiegazioni dettagliate sui corsi d’acqua, sull’erosione e sulla formazione delle spiagge. Il lavoro sui fiumi fu particolarmente importante, evidenziando che

  1. Sono i fiumi ad incidere le valli
  2. l’angolo di pendenza di ciascun fiume é il risultato dell’equilibrio tra velocità e scarico dell’acqua con la quantità di materiale trasportato;

una rete fluviale é il risultato del mutuo equilibrio delle parti che la costituiscono.

La prima affermazione é nota come legge di “Playfair”, la seconda anticipa il moderno concetto di pendenza mentre la terza rappresenta il principio delle “giunzioni concordi” .
Il lavoro di Playfair provocò molti tentativi di contestazione e non venne accettato integralmente fino a quando Charles Lyell, un brillante oratore e scrittore pubblicò il lavoro “The Principles of Geology” che subì una serie di revisioni nelle molte edizioni dal 1833 al 1875. Lyell fu uno straordinario viaggiatore e fu in grado di interpretare le osservazioni di Playfair in modo tale che Ramsay, il primo direttore del British Geological Survey, così disse di lui: “Noi raccogliamo i dati e Lyell ci insegna il loro significato.” Lyell fu il maggior seguace del principio dell’uniformismo e il maggior oppositore dei sostenitori delle idee catastrofiste, specialmente quelle del Diluvio Universale.

Uno dei maggiori difetti del lavoro di Lyell fu che, verso la fine della vita si convinse che i corsi d’acqua non riescano ad erodere la superficie terrestre fino a formare le pianure, ma che l’erosione marina dovesse essere responsabile di tale spianamento e che le scarpate di certe zone dell’Inghilterra sudorientale non fossero altro che antiche scogliere.
Così la teoria del Diluvio Universale stentò ad essere superata in quanto ché si diffuse la convinzione che potesse essere portata a sostegno della teoria di Lyell. In molte regioni europee vennero ritrovati depositi contenenti conglomerati e ghiaie, erroneamente noti come drift (accumuli alluvionale), in posizioni lontane da quella che era stata individuata come la probabile zona di origine e talvolta in posti inaspettati come la sommità di colline. L’ovvia conclusione fu che essi erano stati deposti dal diluvio Universale. Nel 1836 Jean de Charpentier, direttore delle miniere per il cantone di Vaud, e Louis Agassiz, professore di Storia Naturale a Neuchâtél ed esperto di pesci fossili riconosciuto a livello mondiale, esaminarono i ghiacciai intorno al Monte Bianco. Charpentier convinse Agassiz dell’azione erosiva e di trasporto dei ghiacciai. La teoria delle glaciazioni non si deve quindi ad Agassiz - questo onore viene ripartito tra un gran numero di naturalisti svizzeri e francesi, guide alpine ed ingegneri – sebbene, in seguito alla pubblicazione dei suoi “Studi sui ghiacciai” del 1840, venne accettata la nuova interpretazione riguardo all’origine glaciale dei drift (che oggi vengono definiti tilliti, massi erratici, farina glaciale). Agassiz elaborò una teoria su un’era glaciale, ipotizzando che il ghiaccio formasse una calotta che venne frantumata dalla risalita delle Alpi; gli enormi icebergs così formati, trasportarono blocchi di detriti di roccia dalle montagne fino alle pianure circostanti, ove rimasero dopo la fusione del ghiaccio.
Probabilmente la maggior parte delle idee di Agassiz sulla glaciazione erano errate, ma, con la sua opera divulgativa, diede prestigio alle idee di uomini meno noti di lui.
Comunque, durante i numerosi viaggi, Agassiz dimostrò l’applicabilità delle teorie sulla glaciazione alle high-land della Gran Bretagna e, successivamente, al Nord America. In Britannia Lyell diede la più convincente testimonianza a favore dell’origine glaciale dei depositi considerati alluvionali, il ché giocò un ruolo di primaria importanza per il riconoscimento della teoria glaciale. Le idee elaborate per le regioni europee furono divulgate in Nord America da Lyell durante i suoi viaggi nell’Est degli U.S.A. e nel Sud-Est del Canada, a da Agassiz durante le lezioni tenute a Boston nel 1846 e successivamente quando si trasferì in America

Nord America

Le indagini compiute dall’United States Geographycal and Geological Survey negli Stati Uniti Occidentali durante la seconda metà del XIX secolo, furono la base per numerosi ed importanti contributi alla teoria geomorfologica. Tra questi quelli forniti da J.W. Powell, C.E. Dutton, e soprattutto da G.K. Gilbert.

Nelle regioni semiaride le relazioni tra forme e processi e tra forme e strutture geologiche, furono allo stesso tempo più chiare e meglio dimostrate che nelle regioni coperte da vegetazione dell’Est degli U.S.A. e dell’Europa. Le grandi dimensione di forme quali il Grand Canyon in Colorado testimoniano il potere erosivo dei fiumi, sebbene la spiegazione che fornì Powell sull’evoluzione del Plateau del Colorado fu pionieristica in altro senso; egli aggiunse alle teorie geomorfologiche lo sviluppo di una nuova classificazione dei rilievi, secondo genesi e strutture che le compongono. Inoltre produsse una classificazione delle dislocazioni, delle valli ed una classificazione genetica dei reticoli di drenaggio.

La sua classificazione dei sistemi di drenaggio implicava le nuove idee circa il drenaggio sovraimposto e quello di drenaggio antecedente; associata a questa teoria fu elaborata l’idea secondo cui la storia fisica di una regione possa essere in parte interpretata attraverso lo studio del suo sistema di drenaggio in relazione alla strutture geologiche. Probabilmente però la nuova e più autorevole idea che Powell ebbe fu quella di livello di base.
G.K. Gilbert fu, per molti anni, assistente di Powell e, probabilmente, fu lo studioso più eminente di processi geomorfici evolutivi. Il “Report on the Geology of Henry Mountain“ di Gilbert é il primo grande trattato geologico circa i meccanismi di erosione fluviale. Gilbert scrisse in un inglese più comprensibile rispetto ai suoi predecessori su temi quali alterazione ed erosione, rendendo più sistematica la trattazione sua e di Powell su erosione, trasporto, deposito ed equilibrio. Attraverso concetti quali “legge delle pendenze uniformi, legge dei pendii, legge degli spartiacque e legge della struttura” espresse le basi delle conoscenze moderne sulla resistenza delle rocce all’erosione e sulle relazioni tra pendenza, energia disponibile all’erosione e corrente di trasporto: il suo lavoro sui corsi d’acqua culminò con la monografia del (1914) “The transportation of debris by running water.“

XX SECOLO

Sfortunatamente il lavoro pionieristico di sviluppo della teoria di Powell e Gilbert venne oscurato dalla vasta pubblicazione di quaderni e libri di W.M. Davis che, di tanto in tanto, sembrò confondere le proprie teorie con i dati fondamentali lasciandosi coinvolgere da speculazioni sull’evoluzione piuttosto che sulla comprensione dei meccanismi di trasformazione del paesaggio. Nei paesi di lingua inglese la teoria di Davis del ciclo di erosione normale divenne più nota di quanto non meritasse. Ciò fu dovuto in parte ai suoi allievi C.A. Cotton in Nuova Zelanda e S.W. Wooldridge in Inghilterra. Il ciclo di erosione ed il criterio ad esso associato di evoluzione del denudamento verrà discusso più approfonditamente in seguito.
Nel corso del XX secolo si trovano tre approcci alternativi all’interpretazione proposta da Davis. Il tedesco Walter Penck fece dell’instabilità e dei movimenti della crosta il cardine del suo approccio allo studio delle forme ed ai pendii. In contrasto con Davis, Penck mise in evidenza come i movimenti crostali siano spesso continui, di intensità variabile e di lunga durata. Egli tentò di usare la forma dei pendii come indicatori della velocità di sollevamento, in particolare delle variazioni di velocità. Penck esaminò, ad esempio, i profili a gradini di molte creste nei rilievi della Foresta Nera, considerandoli testimonianza delle fasi di sollevamento, intervallate da periodi di relativa stabilità. L’interesse circa l’instabilità della crosta nel tardo Cenozoico, definita “neotettonica”, é ancora oggi argomento di rilevante interesse nei lavori di molti ricercatori russi, in particolare Yu. A. Meschirikov e I.P. Gerassimov.
Il secondo argomento é quello della geomorfologia dinamica ed il terzo é quello dello studio dei processi.
L’influenza del clima sui processi responsabili della modellazione del paesaggio (morfogenesi) e sulle forme associate era risultato evidente ai primi esploratori dell’America dell’Ovest, sebbene altrove i contributi più significativi in questo campo si ebbero da ricercatori tedeschi: Von Richtofen in Asia, ed, in Africa, J. Walther e S. Passarge. Tutti e tre avevano lavorato in aree desertiche evidenziando l’efficacia dell’azione del vento. In quell’epoca poco si conosceva circa i cambiamenti climatici ed i tre ricercatori non ritenevano che lo scorrere delle acque fosse stato il maggior responsabile nella formazione del deserto.

I concetti di zonalità e l’influenza del clima in geomorfologia devono molto al lavoro del pedologo russo Vasilü Dokuchayev, il quale, con i suoi lavori d’avanguardia, influenzò studiosi europei come E. de Martonne il cui “Le climat facteur du Relief”, pubblicato nel 1913, si allinea con gli atti del simposio di Düsseldorf del 1926 “Morphologie der Klimazonen“, pubblicati da F. Thorbecke. Altri importanti lavori sulle forme ed il clima comprendono: “Le Sahara 2 “ (1923) di E.F. Gautier, lo studio di Mortensen sul deserto settentrionale cileno (1927), la “Geomorphologie der feuchten Tropen” (1935) di Karl Sapper, ed i più recenti studi di J. Büdel in Germania e di J. Tricart ed A. Cailleux in Francia, insieme alla breve raccolta di saggi di Birot “Le cicle d’erosin sous le different climats” del 1960.

In ambito europeo la geomorfologia quantitativa e lo studio dei processi hanno una storia relativamente lunga e basata sulla necessità da parte degli ingegneri di comprendere il potere di erosione fluviale al fine di controllare i torrenti alpini. A questo riguardo Il lavoro “Etudes sur les torrents des Hautes Alpes“ (1841) di Alexandre Surrel è allineato con il lavoro di G.K. Gilbert. Durante la prima metà del XX secolo l’evoluzione degli studi era ancora legata al lavoro di un limitato numero di eminenti ricercatori come R.A. Bagnold, il cui “Physics of Blown sand and desert dunes” del 1941 é ancora il lavoro di riferimento in questo ambito. Per quanto riguarda gli studi sui corsi d’acqua i contributi di Hjulström e A. Sundborg, rispettivamente negli anni 1930 e 1950, furono i predecessori dei saggi dei ricercatori dell’United States Geological Survey, particolarmente di L.B. Leopold, pubblicati nel 1950. Contemporaneamente emerse la tendenza verso l’utilizzo dell’analisi statistica dei dati quantitativi, soprattutto grazie al lvoro di A.N. Strahler.
A partire dal 1950 circa sono stati sviluppati studi dettagliati sui processi, secondo quattro direzioni: prima di tutto essi sono strettamente basati sulla fisica e su misure precise sia sul campo che in laboratorio; in secondo luogo l’analisi é molto rigorosa e fa pieno uso di tecniche statistiche; terzo, oggi un gran numero di ricercatori e quindi viene raccolta una grande massa di dati, spesso elaborati con l’ausilio di computers, confrontando i fenomeni in regioni diverse. La figura dell’eccellente studioso e scienziato é ancora essenziale ai fini dell’evoluzione della teoria e della ricerca di nuove idee, ma i diversi filoni di ricerca sono oggi sostenuti da un congruo numero di ricercatori. Un quarto filone ha contribuito ha rendere possibili molte di queste dettagliate analisi, ovvero l’erogazione di fondi per iniziative di ricerca nelle Università e per attrezzature di campo e di laboratorio.
Fino a non molto tempo fa la geomorfologia, come molte altre branche della scienza, era campo quasi esclusivamente europeo e nord-americano, i cui ricercatori monopolizzavano l’attenzione a livello mondiale. La necessità di stimare le risorse di nuove regioni, unitamente all’incremento dell’istruzione universitaria nel mondo, ha favorito la formazione di gruppi di studio in molti paesi. Inoltre i paesi in via di sviluppo hanno assunto molti ricercatori e docenti provenienti dall’Europa e dagli U.S.A. a partire dal 1945, sebbene l’attuale generazione di giovani studiosi sia di origine locale. In Australia e Papuasia Nuova Guinea, la Land Resources and Regional Survey of the Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) ha fornito non solo informazioni su forme, suoli, risorse idriche e vegetazione, ma ha procurato anche un ampio campo di esperienze per persone che poi hanno avviato programmi di ricerca nelle università locali. La ricerca, in particolare nel campo degli studi sul Quaternario, sta prosperando in molte zone del Sud America e dell’Africa dove ricercatori locali spesso lavorano con ricercatori che si occupano del paesaggio. In Giappone la geomorfologia sta prosperando, con alcune grandi istituzioni che svolgono un lavoro eccezionale nello studio dei processi, nella neotettonica e nel vulcanismo: sfortunatamente la barriera linguistica impedisce la completa valutazione delle conquiste giapponesi. Analogamente gran parte del lavoro svolto dai russi é scarsamente noto, obbligando gli oratori inglesi a traduzioni attraverso il francese ed il tedesco.
Una nuova tendenza a partire dal 1960 riguarda il riconoscimento che la geomorfologia possa fornire un importante contributo alla geotecnica (Geologia Applicata all’Ingegneria) ed alla conservazione dell’ambiente. La geomorfologia applicata offre non soltanto lavoro per geomorfologi ma anche un apprezzabile terreno di prova per la ricerca geomorfologica.

ANALISI

I principali tentativi di spiegazione delle caratteristiche fondamentali della superficie terrestre sono stati focalizzati su modelli e a scala globale. La tettonica a zolle è certamente la più importante, convincente ed efficace teoria riguardo all’origine delle principali tipologie di paesaggio e di configurazioni strutturali. La ricerca di una teoria equivalente che permetta di mettere in relazione i paesaggi con i vari processi indotti dal clima hanno avuto, fino ad ora, minor successo. Il tema delle relazioni tra paesaggio e processi verrà esaminato durante il corso. I principali criteri di comprensione dei processi “esogeni” e dell’evoluzione del paesaggio, insieme agli studi più recenti circa l’influenza dell’uomo sul paesaggio, verranno qui di seguito accennati brevemente:

  1. . la geomorfologia climatica si interessa di correlare le forme del paesaggio con le condizioni climatiche responsabili dei processi esogeni attuali e dominanti, ed ha costituito l’interesse principale di ricercatori tedeschi e francesi;
  2. la geomorfologia climatogenica é un ramo della geomorfolgia sviluppato soprattutto da scienziati tedeschi, con il tentativo di comprendere l’evoluzione del paesaggio in termini di processi che lo hanno modellato nel tempo geologico recente, ponendo l’attenzione sull’interpretazione delle condizioni ambientali del passato dalle forme relitte.
  3. Negli ultimi 20 anni circa, l’interesse sulla natura dei processi esogeni é stato accompagnato da una particolare attenzione su parti dell’attuale paesaggio in evoluzione in termini di bilancio, o equilibrio tra forme e processi.
  4. Lo studio dei sistemi geomorfologici, in cui vengono esaminate le relazioni tra le componenti del paesaggio e i processi che le modificano, ha permesso di identificare l’uomo stesso come parte integrante del sistema e come principale agente geomorfologico
GEOMORFOLOGIA CLIMATICA

Nella letteratura geomorfologica si possono trovare due ampie ed opposte visioni sull’influenza del clima su paesaggio. Gli oppositori dell’approccio basato sulla climatologia negano che differenti sequenze di processi determinino paesaggi identificabili come diversi: L.C. King (1957), per esempio, asserì che “tutte le forme di pendio ricorrono in ogni ambiente geografico e climatico” ed A.N. Strahler (1952) scrisse:
“I processi geomorfici che osserviamo non sono altro, dopo tutto, che le varie forme derivanti da deformazioni di taglio, o di materiali che possono essere considerati sostanze fluide, plastiche od elastiche, in risposta a sollecitazioni che sono per lo più di tipo gravitazionali ma che possono essere anche molecolari... il tipo deformazione ... determina il processo e la forma.”
In contrasto con l’approccio di King e Strahler, spesso associato a ricercatori di area inglese in particolare geologi ed ingegneri, vi é quello che mette in rilievo l’effetto dei fattori climatici su vegetazione e suolo e, attraverso i loro effetti, di ritmi e modalità differenti nello sviluppo delle forme in distinte zone climatiche. Questo secondo approccio é più comunemente associato a geografi di lingua francese e tedesca: tale principio viene chiaramente espresso dall’idea di J. Büdel che “i processi esogeni, attraverso le variazioni climatiche, creino l’immagine morfologica della terra, mentre le strutture geologiche e tettoniche semplicemente influenzino e modifichino le forme localmente.”

In uno schema di classificazione di paesaggi climatici devono essere riconosciuti almeno sette problematiche:

1. il limitato intervallo temporale delle statistiche climatiche relative allo studio dei processi;
2. la variazione del livello al quale i processi risultano confinati ad una determinata zona climatica;
3. la scala alla quale i processi determinano forme caratteristiche;
4. l’influenza degli effetti tettonici, strutturali e litologici sulle forme;
5. la scelta dei criteri per definire le associazioni di forme regolate dal clima;
6. l’influenza dell’uomo;
7. le forme ereditate dai processi del passato.

STATISTICHE CLIMATICHE

Un approccio semplificato per definire la zonizzazione dei processi geomorfici é illustrata in fig. 1.6. L.C. Peltier, utilizzando esclusivamente i dati delle temperature medie e le medie delle precipitazioni annuali, tentò di classificare le condizioni in cui processi particolari sono più efficaci di altri; combinando tali condizioni identificò i processi dominanti con regioni, in parte sulla base del clima (arido, periglaciale, ecc.) ed in parte sulla vegetazione dominante caratteristica di una zona climatica (selva, savana, ecc.). Il risultato è stato di identificare una regione morfogenetica, ossia una regione nella quale un caratteristico insieme di processi di erosione, trasporto e deposito é responsabile dello sviluppo delle forme del paesaggio.
I principali difetti di questo approccio sono:

  1. non viene riconosciuta l’importanza dell’intensità e della ciclicità dei processi geomorfici nello sviluppo delle forme del paesaggio; il mancato inserimento delle variazioni stagionali del clima, e di eventi estremi come le tempeste, fa assumere come dominante la condizione media del clima;

  2. non permette di riconoscere il ruolo svolto dal suolo e dalla vegetazione in relazione al clima, quali componenti interposti tra gli elementi climatici e lo sviluppo delle forme.

Solo in regioni desertiche e glaciali il clima risulta agente diretto, a causa della mancanza di vegetazione. Al di fuori dei deserti biologici l’impatto delle piogge, del tasso di infiltrazione, delle variazioni di temperatura, della velocità di scorrimento superficiale e dell’accumulo di acqua, vengono modificate dalla copertura vegetale; questa, inoltre, influenza direttamente il suolo tramite il continuo rifornimento di materia organica da esso operato, l’effetto sull’alterazione del suolo, sulla permeabilità, sull’aggregazione e sulla resistenza all’erosione.
Alla base di un semplice approccio impostato su medie climatiche, vi è l’ipotesi che i processi agiscano allo stesso modo in climi diversi, sebbene sia sufficiente osservare gli effetti della maggiore densità dell’aria dei climi freddi sulla capacità di trasporto dell’aria stessa, o l’influenza dello sciogliersi delle nevi e del ghiaccio sul bilancio dei deflussi superficiali e dei processi fluviali nelle zone periglaciali, per comprenderne i limiti.

Fig. 1.6 Diagrammi di Peltier: tentativo di correlazione tra processi dominanti e medie annuali di piovosità e temperatura ai fini della definizione delle regioni morfogenetiche. Il diagramma dei processi dominanti non include quelli di tipo glaciale.

PROCESSI E ZONE CLIMATICHE

Ogni processo o fenomeno la cui estensione ed espressione globale sia strettamente riferita ad una specifica regione climatica può essere definito “zonale”. Così le foreste tropicali, le scogliere coralline e le distese di ghiacciai polari sono manifestazioni decisamente zonali e i loro ambienti costituiscono “zone morfoclimatiche”.
Molti processi, estesi a livello globale o che si verificano in più zone, vengono definiti “azonali”. Quindi, ad esempio, l’azione delle onde sulle spiagge e tutti i processi endogeni sono di tipo azonale.

Alcuni fenomeni possono essere caratteristici principalmente di una particolare zona morfoclimatica, ma possono verificarsi altrove in modo più limitato; in questo caso vengono definiti “extrazonali”. Così i ghiacciai ed alcuni fenomeni di strutturazione dei suoli possono verificarsi sulle montagne tropicali. Quindi uno stesso fenomeno può essere zonale in un’area ed extrazonale in un’altra, ma mai zonale in una ed azonale in un’altra.

Quei fenomeni che si verificano in diverse zone morfoclimatiche senza verificarsi a scala globale sono definiti “polizonali”; un esempio di questo tipo è quello dell’azione di acqua e vento. Inoltre, dato che i fenomeni misti sono piuttosto comuni, il concetto di zonalità non é così semplice come potrebbe apparire a prima vista. Quindi un vulcano attivo da breve tempo ha una forma che dipende interamente dai processi endogeni azonali mentre, una volta cessata l’attività, la sua forma può dipendere da processi glaciali zonali o processi fluviali polizonali. L’azione del vento é azonale, ma é molto efficace in assenza di vegetazione, e fenomeni zonali controllano la tipologia di materiale trasportato (neve, sabbia, sale o fango), mentre la temperatura ne controlla la viscosità.
Processi fluviali polizonali dominano molti delle forme del paesaggio dell’Etiopia nella parte alta del Nilo, mentre quando il fiume attraversa il deserto egiziano si trova certamente in condizione extrazonale. Alcuni forme possono essere zonali in una determinata zona morfoclimatica ed extrazonali altrove: i calanchi possono essere zonali in un clima semiarido, ma extrazonali in un clima umido dove una frana ha esposto una roccia di resistenza limitata all’erosione di un corso d’acqua.

SCALA

Non esiste singolo processo di erosione o deposizione che generi tutti le forme di una zona morfoclimatica, ma piuttosto un complesso di agenti il cui livello di efficienza é controllato o modificato dalla struttura geologica e dalla litologia.
Si può costruire una scala gerarchica in cui il clima di una vasta regione, ad esempio un deserto caldo, imprime la sua impronta su ogni forma, sebbene in quella regione siano dominanti diversi processi o controlli. Così il vento può formare una duna, inondazioni periodiche una spiaggia e le strutture un altopiano sovrastante.
Quindi le regioni climatiche sono più uniformi del paesaggio che ricoprono; inoltre l’influenza strutturale generalmente aumenta via via che la forma diminuisce di estensione.

INFLUENZE STRUTTURALI.

Sulle grandi pianure di erosione (superfici di planazione) asiatiche e nei continenti dell’emisfero Boreale é spesso difficile distinguere l’influenza strutturale, litologica o tettonica, tranne che negli occasionali rilievi residuali (inselbergs) costituiti da rocce più resistenti all’erosione o nelle forme gradinate di origine policiclica. Nelle zone montane l’influenza strutturale può diventare dominante a causa delle intense variazioni del clima e dei processi di erosione e deposizione con la quota; tali cambiamenti risultano talmente rapidi da modificare caratteristiche particolari del paesaggio piuttosto che influenzare la sua forma complessiva.

SCELTA DEI CRITERI

In fig. 1.6 é mostrato un esempio di tentativo di distinzione tra zone morfogenetiche su base climatico-vegetazionale. Una tale zonizzazione trascura non solo le stagioni climatiche ma anche le conseguenze delle combinazioni di processi che risultano dal meccanismo di formazione delle forme del paesaggio.

Fig. 1.7 Province morfoclimatiche secondo Tricart e Cailleux. Per i riferimenti numerici si veda il testo.

Quindi la suddivisione morfoclimatica della Terra deve essere basata su una integrazione tra processi, vegetazione, suolo e fenomeni legati alle forme. In fig. 1.7 é rappresentata una mappa delle zone individuate dai geomorfologi francesi J. Tricart ed A. Cailleux. Essi individuano cinque raggruppamenti di zone e quattordici province morfoclimatiche. Minore attenzione è stata posta alla definizione precisa dei limiti rispetto ai lineamenti caratteristici di ciascuna provincia.

La “zona fredda” é suddivisa in quattro provincie:
1. provincia glaciale
2. provincia periglaciale con permafrost
3. provincia periglaciale senza permafrost
4. foreste periglaciale sul permafrost Quaternario.


La “zona boscata di media latitudine”, composta da tre province:
5. provincia marittima con inverni miti.
6. provincia continentale con inverni rigidi
7. provincia mediterranea con estati secche.

La “zona arida ed sub-arida delle basse e medie latitudini”, suddivisa in quattro province:
8. steppa e semideserto con inverni miti
9. steppa con inverni rigidi
10. deserti con inverni miti
11. deserti con inverni rigidi

La “zona intertropicale”, composta da due province:
12. la savana
13. la foresta

“Regioni montuose”
14.sono trattate a parte in quanto la zonizzazione in funzione dell’altitudine risulta di primaria importanza.

INFLUENZA DELL’UOMO

L’impatto dell’uomo sul paesaggio é stato così grande e va aumentando così rapidamente, che deve essere considerato come l’agente geomorfico primario in molte regioni morfologiche. L’impatto antropico verrà discusso dettagliatamente nell’ambito del corso, ma é necessario notare subito che tale impatto non é distribuito uniformemente nelle provincie morfoclimatiche; si possono individuare cinque ampie aree di sistemi morfogenetici influenzati dall’uomo:

  1. Nelle aree agricolturali di U.S.A., Canada, Sud Africa, Australia, Argentina, Brasile, e Nuova Zelanda, colonizzate nel XIX secolo dagli europei, l’uso di attrezzi meccanici determinò una rapida ed efficace conversione della copertura vegetale naturale ad una coltivazione e pascolo destinati all’esportazione. Questo processo fu spesso accompagnato dall’aumento dell’erosione del suolo e dalla distruzione del manto di vegetazione mista che procedeva proporzionalmente all’estensione delle monocolture e dei terreni adibiti al pascolo. L’applicazione dei metodi di conservazione del suolo ha ora ridotto l’erosione a velocità che spesso non sono più intense di quelle naturali ed, in alcuni casi, persino inferiori. La foresta Amazzonica viene ora sfruttata in condizioni pressoché simili e con risultati ugualmente disastrosi di quelle della colonizzazione del XIX secolo anzidette. In Russia un simile tasso di erosione é il risultato dei tentativi di estensione della produzione di grano alle steppe semiaride.
  2. Le zone sovrappopolate che utilizzano metodi agricoli tradizionali, come l’Appennino italiano, il Messico, l’India, l’Algeria e molte piccole aree di Grecia, Turchia, e Spagna sono soggette ad intensa erosione a causa della povertà delle popolazioni. Infatti la necessità di utilizzare tutte la terra per la produzione di cibo, la mancanza di capitali per la costruzione di opere di conservazione del suolo, o semplicemente la mancanza di controllo sul carico animale nei pascoli, ha aumentato la velocità di erosione, con gravi conseguenze anche economiche.
  3. In molte zone del mondo poco sviluppate la legna da ardere é il solo combustibile per riscaldamento e per cucinare. In molte parti dell’India e nelle foreste dell’Africa la deforestazione é così diventata un fenomeno generalizzato. Nelle zone a più bassa densità di popolazione, la conversione all’agricoltura convisse per un po’ con foreste e savana; ma il tempo lasciato alle foreste per rigenerarsi dopo il taglio diminuì man mano che la popolazione andava aumentando, cosicché il deterioramento del suolo é anche lì un fenomeno diffuso. In queste zone molti governi cercano di incoraggiare le popolazioni a stabilirsi permanentemente ed a migliorare le tecniche agrarie, ma questo orientamento è possibile solo con l’aiuto di capitali esteri. Nel Sahel, lungo il margine meridionale del Sahara e nei margini semiaridi di molti deserti il pascolo intensivo, il calpestio degli animali, gli incendi della macchia e le coltivazioni intensive hanno causato la formazione di macchie locali di vero deserto, specialmente attorno alle sorgenti d’acqua. Probabilmente l’avanzamento della desertificazione non è generalizzato, ma l’aumentata pressione della popolazione umana ha causato seri danni ecologici ed un rapido cambiamento dei processi morfogenetici. Nel 1977 circa 630 milioni di persone, il 14% della popolazione mondiale, viveva in zone aride o semiaride ed erano esposte ad un aumento della povertà ed alla diminuzione delle risorse.
  4. Le terre monsoniche dell’Asia sono soggette ad intensi processi naturali di erosione durante la stagione piovosa; inoltre la povertà, il crollo dell’autorità politica, e la perdita delle tradizionali tecniche di conservazione del suolo hanno fatto seguito a sovrappopolazione o conflitti, incrementando la deforestazione e l’erosione.
  5. Nei terreni agricoli europei di antica tradizione la diffusione della monocoltura, l’ampliamento dei campi, l’incremento nell’utilizzo delle macchine agricole ed i cambiamenti dei metodi di coltivazione hanno periodicamente causato un incremento dell’erosione locale. Per contrasto l’uso intenso del suolo in zone come l’Olanda si accompagna, talvolta, ad una diminuzione del tasso di erosione. Forse l’effetto più intenso della pressione antropica sui ritmi e sulle forme dei processi morfogenetici é avvenuto con la diffusione di grandi strutture ingegneristiche e dell’edificato, specialmente nel XIX e XX secolo

RELITTI

In quasi tutte le provincie climatiche si ritrovano forme relitte che testimoniano processi del passato. In alcune zone come valli glaciali o aree pianeggianti, i paesaggi residuali dominano su quelli in via di evoluzione; in alcune aree, come ad esempio le foreste tropicali delle basse latitudini, i paesaggi residuali possono risultare meno evidenti. Comunque, nell’ambito dell’interpretazione delle forme del paesaggio attuale, si deve tenere conto della presenza delle forme residuali; l’approccio proposto dalla geomorfologia climatica individua nello studio delle eredità del passato la base di partenza ai fini della ricostruzione dei mutamenti che hanno prodotto il paesaggio attuale.

GEOMORFOLOGIA CLIMATICA

Il maggior esponente della geomorfologia climatica come metodo sistematico di studio del paesaggio é il tedesco J. Büdel. Egli basa il suo lavoro ritenendo i processi endogeni come i responsabili della disposizione di zone di sollevamento e subsidenza, il ché determina le condizioni di alterazione ed erosione selettiva delle rocce; Büdel sostiene, tuttavia, che l’influenza della struttura sull’orografia sia solo di tipo passivo e che la formazione attiva dei rilievi sia determinata dai processi esogeni. Egli fa notare come le Alpi, se fossero il prodotto esclusivo dell’innalzamento endogeno, apparirebbero come un massiccio a cupola di circa 10 Km di altezza, sebbene i processi esogeni abbiano eroso più della metà di questa altezza dall’inizio del Terziario, creando così il paesaggio che si osserva oggi.

Fig. 1.8 Le zone morfoclimatiche attuali secondo Büdel (1977).

  1. Una zona glaciale nella quale i fenomeni di scorrimento del ghiaccio hanno formato vasti paesaggi d’erosione e di deposizione, eliminando la maggior parte delle tracce di paesaggi più antichi. Tuttavia, nelle aree in cui la copertura di ghiaccio era sottile, alcuni resti di paesaggi preglaciali rimangono conservate.
  2. Zona subpolare di valle incisa, ovvero l’attuale zona periglaciale della tundra sub-polare. Attualmente questa intensa azione di incisione valliva avviene in zone come le isole Spitzbergen, dove l’azione meccanica di sgretolamento frantuma la superficie delle rocce, creando terreni strutturati e soprattutto il geliflusso, lo scorrimento superficiale e canalizzato responsabili del trasporto dei detriti nei fondovalle. Durante lo scioglimento primaverile delle nevi le intense inondazioni trasportano grandi quantità di detriti ed i fondovalle vengo scavati ed ampliati dalla corrasione. Durante l’autunno il sottile strato di neve permette che l’impatto del gelo (oltre i –30 °C) si propaghi all’interno delle rocce causando intense contrazioni nello strato superiore di permafrost che producono ampie fessurazioni. Queste spaccature sono mantenute aperte dalla formazione di lenti di ghiaccio. Durante l’inverno il freddo intenso fa progredire il processo ampliando ulteriormente le fessurazioni. Nell’arco di un centinaio di anni lo strato di roccia può essere suddiviso in piccole masse rocciose immerse in una matrice di ghiaccio. Büdel definisce ice-rind questo strato superficiale superiore. La parte superiore dell’ice-rind può scongelarsi durante l’estate, quindi il letto dei corsi d’acqua risulta composto da frammenti di roccia che vengono trasportati dalle acque stesse. Nelle Spitzbergen, durante l’Olocene, l’abbassamento dei fondovalle ha superato i 10-30 m. Büdel ritiene che intensi processi di questo tipo siano avvenuti nell’Europa centrale durante le ere glaciali e che il tasso d’incisione sia stato pari a circa 1-3 mm/y. Lo stesso tipo di processo giustifica l’ampliamento delle valli in aree non occupate dai ghiacci durante i periodi glaciali, in antitesi all’erosione fluviale relativamente debole dei periodi interglaciali olocenici in Europa*.
  3. Zona extratropicale di “lenta” formazione delle valli: comprende la maggior parte delle regioni di media latitudine, ed é caratterizzata oggi da processi moderatamente attivi, ma spesso anche da strutture residuali connesse a formazioni vallive generate in clima freddo (zona 2).
  4. Zona sub-tropicale di formazione di valli e pediments: si trova tra le zone 3 e 5. E’ un’area caratterizzata da clima fortemente stagionale, con inverni molto intensi nell‘Asia continentale e molte forme residuali di tipo tropicale nei continenti dell’emisfero australe. Il clima stagionale facilita il dilavamento laminare cosicché i pediments, ed i più ripidi glacis di erosione su rocce meno competenti, sono le forme caratteristiche (fot. 1.1). Questa regioné divisa in quattro unità nella classificazione del 1977.
  5. La zona tropicale di formazione delle superfici pianeggianti é considerata la più ampia e quella che in passato ha dominato vaste aree ora comprese tra la zone da 1 a 4. L’alterazione operata dal clima tropicale umido ed in particolare quella prodotta dall’alternanza tra stagione secca ed umida, presenta caratteristiche di grande importanza per lo sviluppo delle forme. L’alterazione é quasi esclusivamente di tipo chimico e si sviluppa in tempi relativamente rapidi. Inoltre risulta più efficace su litologie quali il granito, in cui sia la mica che i feldspati vengono trasformati in minerali argillosi, penetrando molto profondamente lungo spaccature aperte e ravvicinate e dove è abbondante il suolo inumidito. Quindi l’alterazione risulta più intensa alla base dei versanti dove maggiore è l’apporto d’acqua, e meno sui pendii ripidi, sui plateaux aridi o su rocce come le quarziti ove non avviene la trasformate in minerali argillosi. Nelle pianure il limite di alterazione ( cioè la zona di contatto tra il regolite e la roccia sottostante) é irregolare a causa della non uniforme competenza della roccia e delle variazioni del tasso di umidità del suolo. Il limite dell’alterazione è abbastanza profondo (4-10 m) poiché la velocità di alterazione nelle aree con bassa energia del rilievo, supera la capacità dei fiumi di trasportare i sedimenti. Il terreno assume la caratteristica colorazione rossastra a causa della presenza di ferro e dell’intensa azione chimica di formazione dei minerali argillosi cosicché la caolinite, insieme agli ossidi di ferro ed alluminio, risultano predominanti nel regolite. L’esposizione dello strato di suolo più profondo in seguito all’asportazione di quello soprastante, conduce frequentemente all’indurimento degli ossidi di ferro ed alla formazione di duricrusts. I corsi d’acqua trasportano quantità elevate di soluti, di argille a grana fine e di sabbie, ma poco materiale a grana grossa a causa della scarsa alterazione meccanica. I fiumi quindi presentano una bassa capacità di incisione sul “bedrock” compatto, il quale si trova esposto proprio a causa dell’azione dei fiumi che rimuovono il materiale, poco resistente, che costituisce il regolite. Di conseguenza i lunghi profili di molti fiumi tropicali sono interrotti da cataratte, cascate e rapide; inoltre tra i bassopiani locali, i fiumi migrano lateralmente attraverso piane profondamente erose, espandendosi in ampi bacini. In tal modo lo spianamento laterale, le superfici di erosione a disposizione della pioggia battente (rain splash), l’erosione laminare (sheet wash) ed i processi di soluzione riducono lo spessore del suolo nei bacini e nelle pianure; contestualmente il fronte di alterazione procede all’interno del bedrock. La combinazione tra rimozione laterale dei detriti superficiali ed approfondimento nel regolite viene chiamata da Büdel doppia planazione punti in cui il terreno, abbassandosi, raggiunge il fronte dell’erosione il bedrock può trovarsi esposto formando un tor o un inselberg (fig. 1.9). In un clima tropicale caratterizzato da stagioni secche, i processi di slope wash risultano piuttosto efficaci e i ferricrete (lateriti) si trovano esposti, assumendo la forma di calotte rocciose al di sopra delle scarpate. Le superfici di planazione tropicale con profondi profili di alterazione incisi nel bedrock, sono chiamati etchplains (piane di incisione). Queste piane possono venire frazionate a causa di variazioni climatiche, scomparsa della copertura vegetale o abbassamento del livello di base locale; quindi il regolite viene rimosso e si sviluppa una superficie di bedrock irregolare, o con una sottile copertura di suolo – ovvero un etchplain inciso (fig. 1.11). Nello schema del 1977 viene distinta anche una zona tropicale interna.

Fot. 1.1 Esempio di pediments al piede dei versanti nell’area delle Cape Fold Mountains.

Büdel ed altri ricercatori hanno identificato resti di etchplain in molte aree che non sono attualmente caratterizzate da clima di tipo tropicale. Talvolta questi etchplain presentano resti di suolo caolinizzato, suoli ad argilla rossa o resti di lateriti. Alcune di queste superfici relitte di etchplains hanno un’età di formazione individuabile come risalente al tardo Mesozoico o Terziario. Il progressivo cambiamento dei processi morfogenetici dominanti é indicato in fig. 1.11. Mediante questo schema Büdel individua il graduale raffreddamento dei continenti durante il periodo Terziario e la frequenti fluttuazioni climatiche durante il Pleistocene. Il riconoscimento delle numerose fluttuazioni del clima nel Quaternario convinsero C.A. Cotton a mettere in evidenza l’importanza dell’alternarsi degli ambienti morfogenetici. Lo scopo principale della geomorfologia climatica é illustrato in fig. 1.10 dove sono rappresentate due aree dell‘Europa centrale nelle quali Büdel individua le seguenti forme:

1. i resti degli etchplains del Terziario.
2. Vasti piediments formatisi durante un probabile periodo secco del tardo pliocene.
3. La profonda incisione delle valli avvenuta nel Pleistocene in clima periglaciale.
4. I fondovalle olocenici.

Fig. 1.9 Superficie di doppia planazione in ambiente tropicale bi-stagionale (secco-umido). Si noti l’assenza di incisione fluviale; le piane sono dominate dall’erosione laminare. Gli inselberg più elevati sono più antichi dei più bassi i quali risultano esposti solo dal momento in cui il dilavamento rimuove il materiale che costituisce il regolite (Büdel).

Questa modellizzazione sottintende che le modifiche delle superfici di plateau si esplichi molto lentamente, che i paesaggi antichi (paleoforme) possano perdurare, con piccole modifiche, per decine di milioni di anni e che l’erosione attiva risulti confinata soprattutto ai lati della valle ed in particolare ai fondovalle. L’importanza di questa teoria risiede dunque nel fornire una base storica alle ipotesi geomorfologiche circa il controllo del clima sui processi e sulle forme.

GEOMORFOLOGIA CLIMATICA

I due principi fondamentali che sono alla base dei tentativi di correlazione tra forme del paesaggio e clima sono quello dell’attualismo e quello dell’uniformismo.

  1. Lo studio dei fenomeni geologici attuali fornisce una chiave per la comprensione di fenomeni simili nel passato (attualismo). Risulta abbastanza evidente tuttavia, che la combinazione tra processi ed i relativi effetti possono essere stati molto diversi nel passato rispetto ad oggi. Si è dimostrato che all’inizio del Terziario il climi era, in vaste aree, molto più caldo di quello attuale; ciò potrebbe implicare che i processi chimici fossero più rapidi, sebbene possano essere stati anche più efficaci. In Africa ed in Australia, ad esempio, molte lateriti potrebbero essersi formate in condizioni che non si verificano da molto tempo, così come in alcun luogo oggi si sviluppano i silcretes (duricrust ricche di silice). Sono pochi i dati certi circa la formazione delle silcretes, quindi non si può affermare se l’origine sia di tipo climatico o legata alla mancanza di particolari quanto necessarie combinazioni tra i valori di pH e potenziale di ossidazione in presenza di suolo abbondante e di acqua corrente. In condizioni di ambiente umido i suoli e la copertura vegetale rappresentano una zona di interfaccia tra processi climatici, rocce e regolite. Il manto erboso, e quindi la relativa formazione del suolo, non si sviluppò prima dell’inizio del Terziario; inoltre, durante il tardo Cenozoico, molte specie vegetali e fitocenosi si sono estinte, hanno ridotto le loro aree di insediamento o hanno modificato la loro struttura. L’effetto di tali cambiamenti sui processi genetici delle forme non è noto. Una delle testimonianze più importanti ai fini delle ricostruzioni paleoclimatiche è rappresentata dal ritrovamento di paleosuoli. Le caratteristiche del suolo rispecchiano il fragile equilibrio tra orografia, clima e vegetazione. La presenza di una specifica tipologia di suolo in un dato luogo, testimonia la minore efficacia dell’azione meccanica dell’erosione rispetto ai processi di genesi del suolo stesso. Il ritrovamento di orizzonti continui di suolo, oppure di livelli troncati o sepolti con bordi netti, rappresenta un importante contributo al fine di distinguere la velocità relativa e la distribuzione dei fenomeni erosivi sul paesaggio; quindi tali ritrovamenti sono indicatori di stabilità del paesaggio. Suoli intercalati a sequenze sedimentarie, per esempio su antiche piane alluvionali, indicano periodici eventi deposizionali. Gli stessi paleosuoli sono indicatori di regime climatico mentre i suoli fortemente arrossati e quelli fortemente caolinizzati, sono considerati testimonianze di condizioni climatiche caldo-umide. Tuttavia è provato che, in tempi sufficientemente lunghi, questa tipologia di suoli possano formarsi anche in climi più freddi; quindi i paleosuoli possono essere considerati solo come indicatori di lunghi periodi di stabilità piuttosto che di particolari regimi climatici. Le attuali misure di velocità dei processi vengono usate, alcune volta, per valutare l’età di un paesaggio: essendo implicito il fatto che un paesaggio antico non possa conservarsi in una zona di intensa erosione. L’utilizzo di questo metodo può essere utile ma, al tempo stesso, ingannevole. Appare evidente, da quanto esposto in precedenza, che le superfici di planazione si siano sviluppate in tempi dell’ordine di decine di milioni di anni e che le loro vestigia possono conservarsi per 100-200 My. Ciò vale in particolare in quelle aree in cui, durante gran parte del Cenozoico, il regime climatico è stato di tipo arido o semi-arido, o dove le condizioni strutturali sono particolarmente favorevoli, come, ad esempio, sugli altopiani calcarei della Gran Bretagna. Il problema principale che si pone nello stabilire la validità dell’approccio climatico all’interpretazione delle forme é la necessità di individuare insiemi caratteristici di forme per le più importanti zone climatiche attuali e quindi, per analogia, mettere in relazione i paesaggi residuali (paleoforme) con un dato regime climatico. Molti critici ritengono che questo problema non sia ancora stato risolto; alcuni di essi si spingono fino ad affermare che questa interpretazione sia impossibile poiché il paesaggio attuale contiene la testimonianza di tutti i regimi climatici del passato, comprese tutte le variazioni. Come ulteriore obiezione bisogna ricordare tutti i problemi inerenti al riconoscimento di convergenze (o equifinality) secondo cui differenti combinazioni di processi possono dar luogo ad una stessa tipologia di forme.
  2. Il concetto secondo cui la velocità dei processi geologici sia essenzialmente costante é nota come principio dell’uniformismo. Questo principio si basa sul convinzione che le leggi fondamentali della fisica e della biologia non siano variate nel tempo, il che é anche la base di tutto il pensiero scientifico; no si può affermare altrettanto se si ritiene che ciò significhi che la velocità dei cambiamenti in tempi geologi sia essenzialmente uniforme. Durante il tardo Cenozoico il clima, le calotte glaciali, il livello di base e la copertura vegetale sono cambiati ripetutamente e spesso rapidamente: lo stesso non si può dire per la maggior parte del primo Cenozoico. Cambiamenti drastici nel paesaggio possono verificarsi nelle zone montane con forte acclività a causa di frane in roccia di grandi dimensioni, il cui effetto può essere visibile anche dopo 100.000 anni. Al contrario la valle vicina può non aver subito altro che una occasionale piccola frana. L’analisi di forme con età oltre il centinaio di migliaia di anni raramente permette di riconoscere le aree soggette ad eventi estremi, la frequenza con cui si verificano eventi di grande intensità, le misure di variazione sulle forme prodotte così come il tempo necessario affinché il loro effetto sia cancellato o modificato da eventi meno intensi. Tali considerazioni sono tuttavia al centro di molti studi recenti sull’equilibrio del paesaggio.

Fig. 1.10 Genesi del rilievo nell’Europa centrale secondo Büdel (1979): 1. echtplains del Terziario; 2a. superfici di origine dubbia comprese tra il Pliocene e l’alto Pleistocene; 2b. ampi terrazzi e pediments al di sopra delle valli principali, datate dall’alto Quateernario; 3. Valli Pleistoceniche; 4. Pianure e terrazzi a bassa quota dell’Olocene. Questo schema semplificato implica che più del 95 % dei rilievi europei sia pre-Olocenici, il che pone alcuni problemi interpretativi sul riconoscimento delle moderne zone morfoclimatiche..

Fig. 1.11 Una superficie di doppia planazione o etchplain può essere privata dalla copertura del regolite, in particolare in seguito a variazioni climatiche, evolvendo in un etchplain con scarso regolite.
Fig. 1.12 Zone morfoclimatiche dell’emisfero boreale in una fascia meridionale dall’Equatore al Polo Nord, attraverso l’Europa Centrale, dal Terziario in poi. Le numerose fluttuazioni climatiche del Cenozoico non sono rappresentate in scala (Büdel, 1948 e 1977).

EQUILIBRIO

L’importanza di un evento erosivo dal punto di vista geomorfologico dipende dalla quantità di energia che esso scarica sul paesaggio. Maggiore é l’intensità di un evento e minore é la probabilità che esso si verifichi nuovamente nell’immediato futuro. I periodi di ritorno, o frequenze, vengono espressi in termini di probabilità; così una frana con dimensioni tali da avere un periodo di ritorno di 10 anni, ha una probabilità del 10% di ripetersi in un anno, mentre per una frana con un tempo di ritorno di 100 anni la probabilità scende all’1%.
Frane di grandi dimensioni possono verificarsi, in media, soltanto una volta su svariate migliaia di anni. Questo semplice approccio statistico presenta il limite di non considerare le variazioni del clima sul calcolo della probabilità e quindi, ad esempio, un aumento della piovosità può aumentare la probabilità che si verifichino frane di particolare dimensioni.
Il concetto di intensità e frequenza degli eventi responsabili del cambiamento delle forme implica che eventi molto frequenti, o continui, come il fenomeno del passaggio in soluzione o il soil creeping, siano approssimativamente bilanciati cioè risultino in equilibrio con lo sviluppo del suolo, con la copertura vegetale e con il tasso di erosione. Questo “normale” tasso di cambiamento viene interrotto da eventi estremamente rari, dopo i quali il paesaggio tende gradualmente a reintegrarsi, sebbene più grande è l’intensità dell’evento e più lungo é il tempo necessario per ripristinare la situazione iniziale (tempo di rilassamento). Di conseguenza i cambiamenti del paesaggio si verificano in periodi di stato stazionario in cui dominano processi di tipo graduale, accompagnati da eventi catastrofici e quindi dai relativi periodi di recupero, durante il quale le forme si adattano a tale evento (es. frane in roccia e detriti vengono ricoperte dalla vegetazione, con la formazione di suolo, Fig. 1.13).
L’evento catastrofico deve avere sufficiente energia per superare quella che è la soglia di resistenza. Esaminato per un tempo molto lungo il paesaggio sembra ancora essere in equilibrio con le forze agenti su di esso, ma poiché non si tratta di un equilibrio calmo o statico, é spesso chiamato equilibrio dinamico. Nei periodi di variazione del clima, durante i quali si assiste anche a cambiamenti della copertura vegetale, si verificano fasi in cui l’equilibrio di lungo termine è rotto, aprendo la strada a rapido variazioni delle forme. Testimonianze di questo tipo di evoluzione possono essere riconosciute, ad esempio, dall’incremento delle gully e rill erosion, o dall’aumento della produzione di sedimenti, il quale raggiunge il valore massimo durante lo sconvolgimento della copertura vegetale, per poi diminuire quando la vegetazione si ricostituisce (Fig. 1.14).

Fig. 1.13 Equilibrio dinamico: comprende i tre stati di 1.evento di modellamento della forma; 2. riequilibrio della forma in seguito all’evento; 3. periodo di stato stazionario durante il quale non si verificano sostanziali modifiche della forma. La curva che rappresenta la variazione delle forme del paesaggio nel tempo può crescere molto rapidamente, gradualmente o lentamente in funzione dell’intensità e frequenza del processo dominante (Selby, 1974).

L’importanza del concetto di equilibrio e della sua rottura, risiede nel far concentrare l’attenzione sulla variabilità del tasso di variazione dei fenomeni e su quelli che sono i suoi effetti. Inoltre guida l’attenzione su quelle porzioni di paesaggio che sono particolarmente sensibili ai cambiamenti (generalmente zone elevate e fortemente acclivi), formando un collegamento tra lo studio dei processi a breve termine e l’approccio storico della cronologia dell’erosione e della geomorfologia climatica.
Il concetto di equilibrio dinamico tra forza e resistenza negli eventi che modellano le forme non é nuovo: in particolare é implicito negli scritti di G. K. Gilbert (1877). Più recentemente Hack (1960) ha suggerito che l’intero paesaggio possa svilupparsi senza variazioni di forma se il tasso di incisione dei corsi d’acqua e la velocità di erosione dei pendii risultano in condizioni di quasi equilibrio. Hack ipotizzò che la topografia dei crinali e delle gole di alcune zone degli Appalachi si stia evolvendo secondo questo modello. Tuttavia questa interpretazione risulta applicabile solo per un intervallo limitato di tempo geologico poiché, in tempi più lunghi deve verificarsi l’adattamento del paesaggio verso il livello di base.

Fig. 1.14 Risposta della copertura vegetale e tasso di erosione in funzione delle più intense variazioni delle precipitazioni. La variazione climatica è considerata

SISTEMI GEOMORFICI

Riconoscere le relazioni tra energia introdotta in un’unità di paesaggio ed i suoi effetti sulle tante parti costitutive di quel paesaggio, ha incoraggiato alcuni studiosi dei processi genetici delle forme a studiare i sistemi nel loro complesso. Come esempio si consideri l’immissione di energia in un bacino idrografico prodotta da un temporale. Si genera una frana il cui detrito scivola nell’alveo producendo uno sbarramento nel canale, il ché genera al tempo stesso deposizione ed erosione di quei banchi di canale verso i quali viene deviata la corrente: i sedimenti inoltre vengono trasportati fuori dalla valle. In conseguenza del verificarsi della frana la capacità di infiltrazione in corrispondenza della nicchia di distacco si riduce fino a quando il suolo e la vegetazione non ricoprono nuovamente la roccia; inoltre il banco di erosione del canale diminuisce gradualmente via via che lo sbarramento viene asportato. Infine la maggior parte delle tracce della frana vengono eliminate. Il bacino idrografico ha risposto in modo complesso all’immissione di energia causata dal temporale, trasmettendola sotto forma di energia cinetica dell’acqua e ricostituendo poi l’equilibrio con modifiche permanenti di dimensioni relativamente modeste. Il bacino idrografico si è comportato come un insieme di componenti, o variabili, connesse in modo tale che una variazione di una di esse implica la variazione delle altre. Ragionando a grande scala l’intero sistema solare può essere considerato un “sistema”, ovvero un insieme di elementi correlati gli uni agli altri ed operanti contemporaneamente.
La maggior parte dei sistemi geomorfici sono di tipo aperto, ovvero, come il bacino di cui sopra, permettono scambi sia di energia che di materia con ciò che li circonda. In essi si riscontra la tendenza ad adattare le relazioni tra gli elementi al fine di giungere ad una condizione di stato stabile; tale comportamento si riflette nella struttura degli elementi che li compongono (p. es. la struttura gerarchica del reticolo idrografico – Fig.10.25).
Alcuni sistemi naturali, se osservati a scala adeguata, possono essere considerati chiusi: la terra per esempio riceve una scarsa quantità di materia (rispetto alla propria massa n.d.t.) e non ne trasmette allo spazio circostante; analogamente il ciclo idrogeologico perde e riceve piccole quantità di materia. Entrambi i casi si possono considerati sistemi chiusi, se si trascura l’apporto di materia fornito dalle meteoriti e la produzione di acque juvenili (di origine vulcanica n.d.t.). L’interazione tra gli elementi di un sistema aperto provoca una mutua riorganizzazione definita feedback. La presenza del feedback implica che così come una variabile influenza un’altra, questa a sua volta provochi una variazione della prima. Il feedback può essere diretto se influisce solo sulle due variabili oppure indiretto se si verifica attraverso la modifica di altre variabili. Può inoltre essere positivo o negativo.
Nel feedback negativo la variazione nella seconda variabile causa una modifica nella prima tale che essa tende a tornare allo stato tramite autoregolazione e generando uno stato stabile di tipo dinamico. Nell’esempio della frana visto sopra, il detrito può riempire il fondovalle allontanando il flusso della corrente dal piede del pendio, permettendo così la stabilizzazione del pendio stesso e la ricolonizzazione della roccia da parte della copertura vegetale; in questo modo il pendio ristabilisce una condizione di stabilità.
Nel feedback positivo la variazione nella seconda variabile induce la prima a cambiare sempre più nella direzione della variazione iniziale. La zona della nicchia di distacco della frana ha una velocità di infiltrazione più lenta rispetto alla copertura di suolo iniziale. Quindi la roccia diventa un sito di aumentato deflusso, originando ruscellamento ed erosione tipo gully erosion; in alternativa la zona della nicchia di distacco potrebbe risanarsi, ma la depressione diventerebbe sede di una nuova espansione della rete di deflusso e su di essa riprendere l’erosione.
In entrambi i casi il feedback positivo aumenterebbe l’effetto erosivo indotto dalla frana. Inoltre, il progredire del processo evolutivo, comporta che la depressione, risultando sempre più abbassata, diventi sito di deposizione. L’autogenerazione del feedback positivo porta in sé la causa della sua stessa cancellazione. L’erosione glaciale é spesso associata al feedback positivo poiché, scavando il fondo delle valli, produce l’ispessimento dello strato di ghiaccio che a sua volta aumenta l’effetto compressivo del flusso intensificando quindi l’azione erosiva. Un altro esempio é fornito dalle modalità con cui gli inselbergs diffondono l’acqua nelle pianure circostanti, incrementando gli effetti dell’alterazione e l’erosione ai piedi dei pendii, aumentando così il rilievo relativo degli inselbergs stessi.
I concetti di equilibrio e i sistema sono i più appropriati al fine di studiare gli attuali processi di erosione e le forme che ne derivano. Risultano invece di scarso interesse negli studi sull’evoluzione di lungo periodo del paesaggio nel suo complesso, per i quali le forme residuali di particolari condizioni paleoambientali, insieme alle paleoforme, risultano essere indizi vitali. Questo approccio ovviamente non intende negare l’importanza del verificarsi degli adattamenti isostatici che si verificano ad esempio in Africa per l’asportazione di materiale a causa dell’erosione, né che l’innalzamento negli Appalachi possa verificarsi con la stessa velocità del processo di spianamento, ma che le differenze nella scala del tempo fanno sì che l’approccio secondo la teoria dei sistemi sia il più appropriato quando si possono misurare le variazioni e riconoscere i meccanismi di feedback. Quindi si tratta di un approccio che permette di correlare lo studio dei processi agli effetti di questi sulle forme ed al contesto in cui viene applicato il principio dell’attualismo.

L’UOMO COME AGENTE MORFOGENETICO

L’impatto della popolazione umana sulla superficie terrestre é circa proporzionale al numero di individui, alla loro distribuzione, all’organizzazione sociale, al livello tecnologico ed all’utilizzo dell’energia minerale. Nel mondo industrializzato ogni individuo utilizza, in media, 2.107 grammi (20 tonn.) di materiali minerali di nuova estrazione all’anno. Per 1000 milioni di persone, cioè circa il 15% della popolazione totale dell’anno 2000, il consumo annuo (2.1016 g) eguaglia, in termini di massa, i più imponenti processi geologici della terra, quali ad esempio la massa di crosta oceanica di nuova formazione, la quantità di roccia erosa sui continenti ed i sollevamenti crostali per attività tettonica.
Se a questa stima si aggiunge la quantità di suolo movimentato ogni anno in agricoltura non vi é alcun dubbio che l’uomo è diventato il più importante agente di modifica della superficie terrestre. Le brevi osservazioni presentate in queste pagine non sono sufficienti a giudicare esattamente l’uomo come agente morfogenetico.
Il rapporto tra uomo e superficie terrestre non é soltanto quello connesso alla creazione di nuove forme: l’attività umana modifica la velocità e l’intensità dei processi naturali; l’uomo studia e riesce a superare i vincoli imposti dall‘ambiente naturale; l’uomo è soggetto ai rischi naturali; valutando le risorse ed amministrandole tenta di controllare l’ambiente.

L’uomo come artefice di nuovi paesaggi

Solo il 15% circa della superficie terrestre perdura nella condizione di stato naturale. In alcune aree, ad esempio i Paesi Bassi, l’intera superficie del suolo é stata modificata o creata dall’attività umana. Il detto: “Dio ha fatto il mare ma gli Olandesi hanno fatto la terra” si avvicina al vero in gran parte dei Paesi Bassi.
Le aree più intensamente alterate sono quelle urbane dove calcestruzzo e catrame, insieme ad ogni tipo di struttura, controllano l’erosione ed i processi idrologici. Gli interventi legati all’agricoltura - spesso mediante terrazzamenti, sistemi di irrigazione, e con cambiamenti su scala sempre maggiore della copertura vegetale - realizzati per l’approvvigionamento della popolazione urbana, hanno effetti sui paesaggi che si estendono per migliaia di chilometri fuori dall’ambito urbano. Serbatoi, cave, miniere, discariche, tagli stradali, ferroviari e canali, interventi di protezione della costa e di assetto dei fiumi ed apparati idroelettrici sono tutti esempi di forme del paesaggio di tipo nuovo e di agenti di modifica dei processi.
L’influenza più drammatica sulla velocità dei processi naturali é data dal mutamento della copertura vegetale e dall’espansione dell’agricoltura. L’accelerazione dei fenomeni erosivi innescati nel 1930 nei Dust Bowl States dell’America occidentale é un esempio delle conseguenze alle quali si và incontro. Quei fenomeni si stanno oggi ripetendo nella maggior parte dell’Africa, in aree di Russia, Brasile ed India.

Problemi nella gestione dell’ambiente

Il contributo dato dagli studiosi delle scienze della terra alla soluzione dei problemi ambientali si distinguono in cinque categorie:
1. E’ indispensabile raccogliere dati sui seguenti argomenti: forma della superficie terrestre; processi di erosione e deposito; rischi potenziali quali frane, colate di fango, inondazioni, subsidenza (si veda tab. 1.2), suoli salini che possono causare deterioramento dei materiali edili e suoli o rocce incompetenti in aree destinate alla costruzione di strade o edifici; suolo, acqua e risorse minerali.
2. Si devono comprendere i fattori che influenzano la sicurezza e la durata dei materiali presenti nelle discariche e la loro influenza sul suolo e sulle acque.
3. Si devono stimate per quantità e qualità le risorse permanenti di acqua.
4. Si devono identificare e mappare le risorse minerali: ciò risulta di particolare importanza per materiali di grande volume ma di scarso valore come sabbia, ghiaia, argilla e calcare necessari per produrre cemento e calcestruzzo e costruire strade; lo sviluppo urbano infatti può renderli inaccessibili e gli approvvigionamenti alternativi possono essere costosi da trasportare.

5. Il monitoraggio delle variazioni dell’ambiente fisico causate dalle attività umane ha assunto importanza sempre crescente al fine di poter applicare tempestivamente alle situazioni critiche i rimedi possibili.

Gli studiosi nel campo della geomorfologia devono dunque giocare un ruolo di fondamentale importanza nella valutazione e pianificazione di un uso saggio dell’ambiente naturale ed umano.